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Cinema

Scappo A Casa – Recensione

Non è mai un buon segno quando quattro personaggi su sette nel manifesto pubblicitario di un film ricoprono al massimo ruoli terziari, particine marginali che non contribuiscono allo sviluppo della storia. Per tacere, poi, della gallina accostata al loro fianco a cui non corrisponde una presenza di rilievo all’interno del film, ma ciononostante proposta come vero e proprio membro del cast principale, per motivi che non sono interamente sicuro di voler approfondire. Allerta spoiler?

Scappo a Casa è l’ultima fatica cinematografica di Enrico Lando, che vede come protagonista Aldo Baglio nella sua prima prova da attore del grande schermo senza la presenza di Giovanni e Giacomo a comporre il trio comico più amato d’Italia. Purtroppo, sebbene il gruppo non si sia sciolto ufficialmente, la decisione di intraprendere un progetto da solista si potrebbe attribuire al conclarato insuccesso del loro film più recente, Fuga da Reuma Park, e alla volontà di riabilitarsi artisticamente agli occhi del grande pubblico: le buone intenzioni, però, stavolta non sono bastate. Il calo della qualità sembra nuovamente confermato, e il risultato è un film mediocre che mostra cosa succede quando un prodotto non ha le potenzialità, ma si applica.

Il film è incentrato su Michele, un edonista del terzo millennio che adotta uno stile di vita tanto semplice quanto efficace: palestra (non senza qualche farmaco procurato sottobanco da un amico), macchine di lusso (ma solo perché lavora nell’officina in cui le ripara), donne in abbondanza (quel tanto che basta per tenere alto il profilo su un’app di incontri). La sua ottica superficiale si applica anche all’approccio con le minoranze etniche, verso le quali non nasconde un certo disdegno. Dopo un incidente che lo identificherà come un clandestino e lo terrà suo malgrado tra i richiedenti asilo di Budapest, una serie di imprevisti al fianco del suo compagno di disavventure Mugambi (interpretato da Jacky Ido) stravolgerà il suo mondo per cambiare la sua disposizione.

Ma cosa è andato davvero storto per questo film? In poche parole, la pretesa di tirare fuori qualcosa dal niente.

Torniamo al sopracitato cartellone pubblicitario. I quattro anonimi personaggi terziari sono un commissario di polizia con un minuscolo coinvolgimento nella trama, l’amico di Michele che gli procura illegalmente i farmaci che compare in appena un paio di scene, un burbero alpino cieco protagonista di un isolato incidente di viaggio che non verrà più menzionato nel corso della storia, e una direttrice d’albergo cinese la cui assenza non farebbe alcuna differenza nel film, con due battute irrilevanti all’attivo, interpretata peraltro da una comparsa (uomo) che appare all’inizio del film nell’officina di Michele come meccanico. E la gallina di cui si è taciuto, lungi dall’avere qualche ruolo simbolico, è stata solo menzionata una volta da Michele in un tipico proverbio siciliano. Non è proprio la panoplia di personaggi memorabili e variopinti che ci si aspetta di vedere accanto ai protagonisti per promuovere una commedia. Ed è esattamente questa la colpa di Scappo a Casa: l’illusione del contenuto, un inganno patetico con cui nascondersi dietro a un dito per mascherare un’imperdonabile lacuna concettuale, che alla fine del film risulta solo una profonda mancanza di rispetto verso lo spettatore.

Dal punto di vista tecnico, sono innumerevoli le infrazioni della regola d’oro cinematografica “show, don’t tell”. Molte gag, rivelazioni e colpi di scena sono rovinati dal fatto di essere esplicitamente comunicati, il che non fa che peggiorare quelle scene e quelle premesse narrative già deboli in partenza; come se non bastasse, all’estremo opposto, alcuni passaggi importanti ai fini della trama sono eseguiti in maniera estremamente sbrigativa e sommaria, praticamente buttati via. Oltre a battute e dialoghi chiave per la fruizione della storia che gli attori stessi paiono non essere interessati a far capire al pubblico, il montaggio delle scene è molto confusionario e non delinea in modo chiaro la sequenza degli eventi, col risultato che l’impatto dei colpi di scena viene drasticamente smorzato e alcune transizioni appaiono molto peregrine. Per fare un esempio, c’è una scena in cui Michele e Mugambi vengono sorpresi da un contadino a dormire nel suo fienile, e nella scena immediatamente successiva li vediamo lavorare per lui. Sono stati rapiti? Stanno pagando col lavoro il loro soggiorno? Nessuno lo sa, ma il film continua ugualmente. Lo stesso finale soffre di questa goffaggine, in un climax mal costruito a cui sembra siano stati tagliati spezzoni a casaccio in post-produzione: in un momento viene inquadrato un alpino, nella sequenza successiva Michele ha addosso la sua uniforme, senza alcuna spiegazione del come e quando gliel’abbia presa, per passare indisturbato attraverso la guardia di frontiera.

La vera disgrazia di questo film, però, è sicuramente la totale assenza di affinità artistica tra i suoi interpreti. Aldo incarna uno spirito comico che a volte cozza coi toni del suo stesso film, ma soprattutto con la recitazione di Jacky Ido. I loro scambi sono visibilmente forzati, manca una vera intesa, un parallelismo, un’ombra di amicizia: non c’è un attore migliore e uno peggiore, ci sono solo due lunghezze d’onda diverse e inconciliabili, due scuole che non hanno nulla in comune. Accostare due mondi così diversi e fingere che stiano bene insieme è stato un esperimento disastroso, il cui unico risultato è una chimera caotica e irriconoscibile che vale meno delle sue singole parti. Inoltre è evidente come in molti momenti Aldo faccia fatica a reggere da solo l’onere comico del film senza le sue spalle di sempre, che più di chiunque altro sanno dare il giusto risalto a ogni battuta, ogni gesto, ogni gag.

Oltretutto, nessun personaggio è lontanamente credibile. Per una commedia impegnata, verosimile, che non si affida completamente a maschere e macchiette come un qualsiasi cinepanettone, anche una dose abbondante di sospensione dell’incredulità non riesce a lubrificare una sceneggiatura carente. Michele non agisce in modo razionale nei momenti di maggiore importanza e finisce con l’essere il peggior nemico di sé stesso e l’unico responsabile delle sue disgrazie, oltre che il vero antagonista del film; la responsabile agli aiuti umanitari non solo è a conoscenza di un piano di fuga di alcuni rifugiati del suo centro, ma addirittura incoraggia Michele a parteciparvi in barba a qualunque codice professionale; Mugambi è allo stesso tempo giusto, vendicativo, tenero, impaziente, saggio, furbastro, leader, incapace; Babelle, la bella bracciante interpretata da Fatou N’Diaye, schiaffeggia Michele dopo che questi la salva da un’aggressione in cui era totalmente impotente perché “non ha bisogno del suo aiuto” (cit.), ma si dispiace della sua presunta morte, però poi gli sottrae con l’inganno i documenti per la fuga; il commissario sloveno offre una sigaretta a Michele per poi riprendersela, redarguendolo sul potere ipnotico della corruzione, per poi scoprirsi a capo di un piccolo giro di caporalato (suo figlio è anche il padrone di Babelle, che le dà la caccia dopo che questa decide di fuggire).

Il film non manca neanche di veri e propri controsensi e buchi di trama, oltre a quelli già menzionati. È doveroso far notare che il film si conclude con un nulla di fatto vergognoso: Michele tenta la fuga, fallisce, viene nuovamente fermato dalla polizia, titoli di coda. Mugambi dimostra di avere poteri sciamanici quando riesce a far scrivere nel sonno a Michele i numeri della combinazione di una cassaforte d’albergo contenente dei documenti che aiuterebbero Michele a tornare in Italia (salvo poi rivelarsi essere una banale data di nascita), ma nasconde al suo gruppo la bussola con cui li guida mentre finge di affidarsi a un talismano per orientarsi. A Michele non viene concessa alcuna possibilità di venire identificato al di fuori di un riconoscimento vocale: non una telefonata, non una ricerca anagrafica, non un controllo delle impronte digitali. Fuori dal centro rifugiati, non dice al commissario di essere italiano, ma (inspiegabilmente) tunisino, come erroneamente dedotto dalla polizia locale e dal risultato del test vocale. Quando mette accidentalmente piede su una mina, la targa in sloveno che lui non sa leggere dice che è finta, e Mugambi ne approfitta, chiedendogli i numeri della combinazione come suo ultimo gesto: quando però il padrone di Babelle, un militare, gli dice che è innocua e la prende a mani nude lanciandola via, questa esplode davvero.

A tutto questo fa capo una generale debolezza delle premesse. Il 90% dei personaggi è anonimo e ininfluente, c’è poca o nessuna sinergia tra trama ed esecuzione, non c’è uno sforzo di base a far interessare al pubblico i moventi e le cause della storia, che risulta dimenticabile e rabberciata. A Michele viene ripetutamente fatto osservare di avere uno spirito “nero” pur essendo bianco di pelle, per ragioni che oltre a non venire esplorate in dettaglio non hanno comunque peso sul corso degli eventi e si avvicinano pericolosamente alla pratica del blackface. Il sottotesto dell’integrazione è portato avanti puramente per inerzia, senza un vero fondamento narrativo.

Non c’è un salvabile da poter salvare, il film vuole essere troppe cose allo stesso tempo senza farne bene nessuna. La storia si incentra sulla ricerca di un McGuffin, l’espediente che in un’opera narrativa mette in moto la trama, rappresentato nel film dalla combinazione della cassaforte: questa rocambolesca avventura un po’ al sapore di on the road che inizia dalla fuga da un centro per rifugiati va di pari passo a una vacillante buddy comedy in cui figura Mugambi, il serioso comprimario di Aldo interpretato da Jacky Ido a cui purtroppo i panni di rivale-spalla in chiave comica stanno fin troppo stretti, costretto suo malgrado a portare Michele con sé perché a conoscenza della combinazione. In qualche modo e senza successo vi è anche una sottotrama romantica campata per aria e mai degnamente esplorata tra Michele e Babelle, la cui fuga dai campi scatena un improbabile inseguimento action senza scrupoli da parte del suo perfido padrone, che armi alla mano è disposto a qualsiasi cosa pur di riaverla – o almeno questo è quello che possiamo intendere dalle due-tre scene in cui questa caccia all’uomo (donna?) ha il suo inizio, svolgimento e fine. Il tutto si svolge in una cornice satirica, socialmente consapevole della questione migranti e critica dell’integrità delle forze dell’ordine: i due poliziotti che fermano Michele a Budapest sono svogliati e commentano divertiti un atto di microcriminalità senza intervenire, mangiando ciambelle come cops americani; due agenti di dogana preferiscono giocare a carte piuttosto che svolgere il loro dovere, una guardia di frontiera è troppo distratta dal suo cellulare per effettuare i regolari controlli e il corrotto commissario sloveno interpretato da Angela Finocchiaro favoreggia il caporalato locale.

È davvero triste che l’esordio al cinema di Aldo sia associato a un progetto che non rispecchia il suo talento. Meno male che ad accompagnare in musica il film ci sono gli Oblivion, collettivo di artisti noti sul web per le loro doti di (ri)scrittura e composizione in chiave teatrale.

Regia: Enrico Lando

Cast: Aldo Baglio, Jacky Ido, Fatou N’Diaye, Angela Finocchiaro, Hassani Shapi

Una produzione Paolo Guerra in collaborazione con Medusa Film

Voto: 3/10